Dopo mesi di solitudine e depressione Erica Isotta prende il coraggio di mettere nero su bianco la sua esperienza di perdita e dolore


Il 25% delle gravidanze termina con un aborto spontaneo: una donna su quattro. Non si tratta di un caso isolato, ma di milioni di donne che si trovano di fronte a quello che oggi resta uno dei più grandi tabù. E’ da questa premessa che parte il libro di Erica Isotta, scrittrice e fondatrice di Women Plot, che mette da parte ogni riservatezza e spalanca le porte della sua esperienza diretta con l’aborto spontaneo.

“25%. Una donna su quattro” si potrebbe definire una storia epifanica perché non solo ci racconta cosa ci sia dietro a una mancata gravidanza, con tutti i suoi risvolti fisici e psicologici, ma ci passa in rassegna tutte quelle informazioni che ogni donna conosce solo se ci è passata, se ha subito un aborto.


Un po’ di dati

I dati infatti ci svelano che “circa il 25% delle gravidanze confermate finisce in aborto, per lo più nei primi mesi e circa un terzo delle donne che hanno avuto due figli ha avuto un aborto spontaneo”. Ma forse quello che più fa riflettere è come sia possibile che questa forma di lutto – perché è di questo che si parla -, sia vissuto il più delle volte in segretezza e solitudine.

“Le donne abortiscono da sole, isolate dalla regola delle 12 settimane: non annunciare la tua gravidanza fino al secondo trimestre – racconta Erica Isotta nel suo libro -. Quando viviamo un lutto siamo soliti parlarne con i nostri cari, gli amici, addirittura sui social media. La sola eccezione sembra essere quella degli aborti spontanei che restano un evento altrettanto traumatico ma non ricevono la stessa assistenza”.

I numeri avvalorano anche come “il 45% delle donne ha riferito sintomi da disturbo da stress post-traumatico tre mesi dopo l’aborto spontaneo. Circa il 30% di queste donne ha riferito che i sintomi hanno influenzato la loro vita professionale; circa il 40%, i loro rapporti con la famiglia e gli amici”, ma la progressione non è sempre lineare: “l’11% delle donne che ha abortito non ha dimostrato sintomi depressivi fino a tre o sei mesi dopo” e la depressione non trattata può aumentare il rischio di altre malattie, tra cui il diabete, il morbo di Alzheimer, ictus e problemi cardiaci.


Mente e corpo

Chi non c’è passato non riesce spesso a comprendere come dietro a ogni aborto spontaneo ci possano essere risvolti fisici (c’è molto sangue, dolore, crampi e stanchezza per settimane), emotivi, con senso di colpa, tristezza, paura, solitudine, disconnessione e rabbia, oltre “un vortice di pensieri, domande, calcoli e ipotesi”. Ma le risposte a un aborto spontaneo sono individuali e varie, “alcune donne piangono un aborto come la morte di un bambino nato; altre lo considerano come una perdita di potenziale od opportunità. Altre donne potrebbero aver bisogno di tempo per rielaborare i propri sentimenti prima di riprovare, mentre altre si sentono meglio restando incinte il prima possibile”.

Una soluzione comune per uscire da questa situazione non c’è, ma in questo hanno un ruolo fondamentale i supporti psicologici che mancano di “default”: come ci racconta Erica Isotta, “non appena ho smesso di sanguinare ho fatto una visita di controllo dalla ginecologa per controllare che non ci fossero ‘resti’ nell’utero. Un controllo puramente fisico. Nessuno ha tenuto conto dello stato mentale in cui mi trovavo”.

Oltre con l’ansia, la depressione e la tristezza, in questi casi ci si trova a lottare con il senso di colpa – molto comune – per un corpo “difettoso” che non riesce a portare a termine una gravidanza senza complicazioni; e per quella colpevolezza nel sentirsi male e incapaci di sopravvivere a un periodo del genere. “Ho il diritto di sentimi così? Nessuno sembra soffrire riguardo a questo problema” si è chiesta più volte l’autrice.


Elaborazione del lutto

In queste situazioni un ruolo fondamentale dovrebbero averlo le persone che stanno accanto. “Non riceviamo necrologi per gli aborti spontanei – scrive Isotta in 25% -. Né riceviamo funerali, veglie o altri segnali culturali o riti di passaggio per riconoscere la perdita, che consentono di piangere pubblicamente e, si spera, iniziare il processo di guarigione. Invece, nella nostra cultura odierna, a volte gli aborti vengono eliminati come qualcosa che è necessario ‘superare’”.

Ma se da una parte si vorrebbe la vicinanza delle persone care, dall’altra occorrerebbe qualcuno che sapesse come comportarsi: parole come “Almeno eri solo all’inizio”, “Ti andrà meglio la prossima volta” non sempre aiutano, “la reazione che avrei voluto e non ho purtroppo avuto sarebbe stata di avere qualcuno ad abbracciarmi tacitamente, senza porre alcuna domanda, ma solo riconoscendo e accettando il mio dolore” scrive Erica Isotta.

Fortunatamente, l’autrice è riuscita ad aprirsi nuovamente alle opportunità della vita: dopo mesi di depressione ha deciso di fare del suo dolore una via per avviare quella battaglia che non ha vissuto come femminista: “Non mi sono sentita solo invisibile all’ideologia con cui sono cresciuta, ma mi sono sentita abbandonata”. Il primo passo verso la sensibilizzazione l’ha fatto ora chissà che qualcun altro si “allei” ed estenda l’azione.