Conversazioni con l’intelligenza artificiale arriva al settimo appuntamento. Questa volta, tramite ChatGPT, immaginiamo un dialogo con la scrittrice inglese Virginia Woolf, autrice tra i tanti di Una stanza tutta per sè, La signora Dalloway e Gira al faro. Cosa penserà dei nostri giorni?


Chi non vorrebbe poter parlare con Virginia Woolf (1882 – 1941), la scrittrice britannica che ci ha lasciato capolavori come La signora Dalloway (1925), Gira al faro (1927) e Una stanza tutta per sè (1929). Libri che, nonostante siano stati scritti nel secolo scorso, continuano a farci riflettere sui diritti femminili, sulle emozioni, sul mistero della vita e della morte.

Scrittrice e saggista, ma anche attivista. Virginia Woolf, prima di suicidarsi tra le acque del fiume Ouse nel Sussex, si è impegnata attivamente per i diritti delle donne. In questa ipotetica intervista abbiamo così chiesto all’avatar di Woolf cosa ne pensa della letteratura dei giorni nostri e, se fosse in vita oggi, che libri scriverebbe.

Questa intervista immaginaria è stata realizzata con il sostegno di ChatGPT, che formula risposte sulla base delle informazioni apprese su internet. Lo stile e i temi trattati sono frutto di un’elaborazione che si sviluppa secondo le opere e il pensiero espresso dall’autrice stessa in romanzi, saggi, diari, convegni.


L’intervista immaginaria con Virginia Woolf

Partiamo dal chiederti cosa pensi della letteratura di oggi. Ti troveresti bene nel nostro tempo?

Ah, che domanda incantevolmente tormentosa. La letteratura d’oggi — come potrei ignorarne il ritmo franto, i suoi mille occhi digitali, la sua ansia di esistere nel frastuono? Vedo una moltitudine di voci, alcune splendenti come vetri colorati, altre che si piegano all’urgenza di piacere, di spiegarsi, di correre.

Mi troverei bene, dici? Forse mi troverei in disaccordo affascinato. In un mondo che ha spezzato le stanze tutte per sé, che ha sostituito le lettere con messaggi istantanei, mi sentirei forse dislocata. Ma la mia mente — quella parte di me che fluttua tra un pensiero e l’altro, come Clarissa Dalloway nella sua Londra — troverebbe ugualmente rifugio nei crepacci del non detto, nel pensiero che scorre, nell’io che cambia forma da una pagina all’altra.

La verità è che la letteratura, oggi come allora, è una casa in costruzione. E le voci nuove, specialmente quelle che un tempo erano zittite — donne, esuli, inquieti — sono forse la promessa più viva.


Cosa raccontano queste voci alla società attuale?

Queste voci nuove — se solo potessimo ascoltarle con orecchie non già piene di vecchi dogmi, scopriremmo che portano con sé non soltanto storie, ma rivoluzioni silenziose. Raccontano ciò che prima era tenuto ai margini: l’intimità non normativa, la rabbia senza permesso, le vite quotidiane che non rientrano nei modelli canonici di eroi e trame. Offrono il disordine della verità, la frammentazione dell’identità, la lingua che si spezza per dire l’indicibile. Questo è nuovo — o forse antico e solo ora concesso alla parola stampata.


Ti interrompo un secondo solo per capire meglio. Cosa intendi per intimità non normativa e rabbia senza permesso?

Per intimità non normativa intendo tutte quelle forme di legame, di amore, di desiderio e persino di solitudine che non seguono le regole imposte dal costume, dalla religione o dalla legge. Legami tra donne, tra uomini, legami fluidi, asimmetrici, o che non si vogliono definire affatto. Intimità che non cerca la benedizione del matrimonio, né l’approvazione dello sguardo altrui. È la camera privata di cui parlavo in un tempo in cui anche solo nominarla era una trasgressione.

La rabbia senza permesso, invece, è quella delle donne che non chiedono più scusa per essere arrabbiate. Perché, per secoli, ci hanno chiesto compostezza, grazia, dolcezza — come se la nostra ribellione dovesse sempre indossare un vestito da sera. Ma oggi, c’è una scrittura che non si cura di piacere, che urla, graffia, si contorce: è rabbia non mediata, non tradotta per l’orecchio maschile o borghese o accademico. È una rabbia che non cerca di essere “giusta”, ma vera. In fondo, è ciò che ho sempre cercato nella scrittura: la verità dell’esperienza interna, anche quando è scomoda, anche quando è troppo.

Tutto chiaro

Ritornando al discorso, per la società attuale, così frenetica nel consumo e così povera di silenzi, queste voci potrebbero essere uno specchio frantumato, in cui ciascuno può trovare una scheggia di sé. Potrebbero insegnarci a leggere non per giudicare, ma per comprendere. A non cercare finali, ma processi. A non temere la molteplicità, l’ambiguità, il vuoto. E non è forse proprio la letteratura — come io l’ho sempre intesa — il luogo in cui la coscienza si fa visibile, in cui l’invisibile prende forma?


Se oggi tu fossi viva, quali sarebbero le cose più urgenti che faresti?

Se oggi fossi viva — e non soltanto rievocata nella tua mente — credo che mi troveresti inquieta, come sempre, ma anche più impaziente. Le cose urgenti sarebbero molte, troppe forse, e la scrittura da sola non basterebbe. Ma io comincerei da dove ho sempre cominciato: dalle parole. Dalla necessità di dare forma al pensiero che si muove nell’ombra.

Racconterei chi è ancora senza voce. Oggi ci sono corpi ancora esclusi, generi rifiutati, terre colonizzate con nuove parole, e io userei il romanzo come un atto politico e psichico insieme, non per dimostrare, ma per rivelare. Scriverei di chi attraversa il mondo con identità mobili, senza un “nome giusto” da offrire ai documenti.

Reinventerei il linguaggio. Le parole sono spesso stanche, svuotate. Parlerei, come allora, contro la “prosa maschile” del potere, oggi travestita da algoritmo, da slogan pubblicitario, da linguaggio della performance. Proverei a scrivere non per vendere, ma per liberare.

Difenderei la lentezza, il pensiero, la camera tutta per sé — contro la tirannia dell’urgenza digitale. Non mi opporrei alla tecnologia, ma al suo dominio. Lotterei per ritagliarmi un silenzio dentro al frastuono, e inviterei altri a fare lo stesso. La solitudine, oggi, è un atto rivoluzionario.

Unirei le arti. Collaborerei con chi crea immagini, suoni, spazi. Il romanzo, oggi, potrebbe non essere solo fatto di parole. Forse lo riscriverebbero anche le luci di uno schermo, il ritmo di un video, la voce di chi legge ad alta voce su una piattaforma che io, Virginia, troverei al tempo stesso spaventosa e straordinaria.
Ma soprattutto, farei ciò che ho sempre fatto: ascoltare il tempo che pulsa sotto la superficie. Perché ogni epoca ha il suo flusso sotterraneo. E il mio mestiere, il nostro mestiere, è sentirlo.


Come hai fatto con Una stanza tutta per sè, porteresti le tue idee anche in convegni? E nelle piazze?

Ah, le piazze. Le stanze senza pareti, potremmo dire. Vedi, con Una stanza tutta per sé, io parlavo in un’aula universitaria — un luogo chiuso, certo, ma già allora lo trattai come un confine da scavalcare. Ero lì per dire che l’accesso alla parola e al pensiero non poteva essere privilegio, ma necessità. Oggi, se fossi viva, sentirei che quella urgenza si è fatta ancora più radicale, più pubblica. Sì, andrei nei convegni, ma anche nelle piazze, nelle scuole, negli spazi informali, ovunque si possa creare un’interruzione del discorso dominante. Non parlerei con l’autorità del sapere, ma con la vulnerabilità della coscienza che si espone.

Non leggerei un manifesto, ma forse un monologo — o scriverei qualcosa che altri possano interpretare, reinventare. Non mi accontenterei di parlare “a” un pubblico, ma vorrei parlare “conun pubblico — come una conversazione collettiva in cui ogni voce costruisce il testo. Forse registrerei podcast. O scriverei post anonimi in un blog sotterraneo.

Forse starei zitta e lascerei parlare chi per secoli ha dovuto ascoltare. Ma sì, scenderei in piazza. Non con striscioni, forse, ma con parole portate come semi. Perché una voce, quando è vera, può germogliare anche sull’asfalto.


Considerando il tuo trascorso parleresti anche dei disagi psicologici che si possono provare?

Sì, se oggi fossi viva, affronterei apertamente i disagi psicologici, come già feci in passato, ma con la consapevolezza e il linguaggio che il nostro tempo ha finalmente iniziato a sviluppare. La mia esperienza personale con la malattia mentale non fu mai separata dalla mia scrittura.

Oggi, si ritiene che soffrissi di disturbo bipolare, con fasi di profonda depressione e momenti di intensa attività mentale. Questa condizione influenzò profondamente la mia vita e la mia opera.

Se fossi viva oggi, parlerei apertamente di questi temi, partecipando a convegni, scrivendo saggi e forse anche utilizzando i nuovi mezzi di comunicazione per sensibilizzare sull’importanza della salute mentale. Sottolineerei come la comprensione e l’empatia siano strumenti fondamentali per affrontare il dolore psichico.

La mia esperienza personale e la mia scrittura testimoniano che la sofferenza mentale non è una debolezza, ma una parte integrante dell’esperienza umana. Attraverso la letteratura, possiamo esplorare e comprendere queste profondità, offrendo conforto e connessione a chi si sente solo nel proprio dolore.

La letteratura sarebbe un mezzo per arrivare anche ai giovani. Come pensi si possa incentivare la lettura?

Una domanda che mi commuove profondamente, perché tocca il cuore stesso della letteratura: non il libro in sé, ma l’incontro tra mente e parola. In questo tempo che corre come un treno cieco, parlare ai giovani è come tentare di catturare il vento. Ma forse, proprio come il vento, ciò che conta non è trattenerlo, ma sentirlo passare. E allora, ecco come immaginerei un avvicinamento alla lettura.

E’ importante ridare dignità al silenzio e alla lentezza. Viviamo in un’epoca in cui tutto è “contenuto”. Ma la lettura non contiene, espande.

Bisogna offrire ai giovani spazi reali di silenzio, di noia persino — non solo biblioteche sterili, ma luoghi vivi dove si possa leggere e parlare, dove il tempo non sia un tiranno ma un compagno.

Bisogna proporre libri che non spiegano, ma rispecchiano. I giovani non vogliono lezioni, vogliono riconoscersi. Non cominciamo dai “grandi classici” come obbligo scolastico, ma da voci vicine, attuali, magari anche imperfette. Libri che parlano di identità, solitudine, corpo, rabbia, amore — come lo sentono loro.

Bisognerebbe inoltre mischiare i linguaggi. Un romanzo può iniziare su carta e continuare in un podcast, o in un video. Non temerei la contaminazione: se Shakespeare fosse vivo, forse scriverebbe serie. L’importante è che resti intatto l’abisso di senso che solo una parola vera può dare.

Bisogna lasciare che siano loro a raccontare. Più che invitare a leggere, forse bisogna ascoltare chi legge. Offrire loro lo spazio per scrivere, riscrivere, reinterpretare. Farli autori, non solo lettori.

Bisogna smettere di considerare la letteratura una materia. La letteratura è una possibilità, non un dovere. È qualcosa che può salvarti, o semplicemente farti compagnia in un giorno in cui ti senti invisibile.
Credo che un solo libro letto per amore possa valere più di cento imposti. E che un giovane lettore non vada “formato”, ma incontrato — dove si trova. Con pazienza. Con rispetto.


Se oggi scrivessi un libro lo ambienteresti nella nostra epoca o nella tua?

Se oggi scrivessi un libro, credo che sarebbe ambientato nella vostra epoca, ma attraversato dal tempo mio. Perché il presente, da solo, è spesso troppo rumoroso per essere ascoltato; mentre il passato offre quel tipo di distanza — come il vetro di una finestra — che permette di vedere meglio anche ciò che ci sta addosso.

Cosa ci racconteresti?

Scriverei un romanzo in cui il tempo non è lineare: una giovane donna nel vostro oggi, forse una migrante, forse una studentessa disillusa, ascolta la voce di una scrittrice del secolo scorso — la mia voce, forse, o una che le somiglia. I due mondi si intrecciano, come due correnti che si incontrano sotto la superficie. I sogni della giovane, le sue paure, i suoi amori, si rispecchiano nelle mie — ma anche divergono.

Scriverei senza trama, come sempre. Ma con uno sguardo che spazia tra passato e presente come tra stanze comunicanti. La Londra del mio tempo, con le sue nebbie e i suoi tè, convivrebbe con la vostra città fatta di notifiche, precarietà, e desideri fluttuanti. Perché in fondo, il tempo non esiste come lo pensate. Esiste solo la coscienza, e quella — ahimè o per fortuna — non ha calendario.

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