Nel 2017 la Russia aveva già attaccato pesantemente il territorio ucraino bloccando bancomat, il monitoraggio delle radiazioni e i distributori di benzina


“Esistono la vita prima di NotPetya e la vita dopo NotPetya. Ovunque sia stata in Ucraina nel corso di quelle due settimane, in tanti la pensavano allo stesso modo”. La giornalista Nicole Perlroth, esperta di sicurezza informatica e spionaggio digitale per il New York Times, nel 2019 ha avviato un’inchiesta per osservare da vicino le macerie di quello che era stato l’epicentro del “più devastante attacco informatico che si fosse mai visto“, un danno costato alle aziende oltre 1 miliardo di euro.

Il Saggiatore ne propone la versione italiana nella traduzione di Valentina Muccichini. Così mi hanno detto che finirà il mondo: la corsa agli armamenti cibernetici e il futuro dell’umanità oggi si rivela una preziosa tessera del puzzle per ricostruire i fatti che hanno scatenato quello che oggi invade la cronaca mondiale. Un cambiamento di strategia russa dal distruggere il legame che l’uomo ha creato con la tecnologia a una distruzione fisica di quello che gli ucraini hanno costruito con il sudore e il tempo: la propria città, la propria casa, la propria identità.


L’attacco che ha bloccato il Paese e il controllo delle radiazioni di Chernobyl

Senza peli sulla lingua, il viaggio a Kiev della giornalista americana sviscera come l’attacco di NotPetya del 2017 aveva messo fuori uso agenzie governative, ferrovie, bancomat, distributori di benzina, il servizio postale e perfino i rilevatori di radiazioni della vecchia centrale nucleare di Chernobyl.

“I computer che monitoravano i livelli di radiazione – presso l’impianto che era esploso più di trent’anni prima – erano fuori uso. Nessuno sapeva se i livelli di radiazione fossero sicuri o se fossero stati in qualche modo sabotati”. L’amministratore tecnico di Chernobyl, Sergei Goncharov, dichiarò che il giorno dell’attacco subì un trauma psicologico: “Stava rientrando dalla pausa pranzo quando l’orologio aveva segnato le 13.12 e 2.500 computer si erano spenti nel giro di sette minuti. Erano iniziate ad arrivare numerose telefonate: non funzionava più nulla. In quel momento eravamo così presi dal far funzionare i nostri computer che non ci preoccupammo un granché dell’origine del problema, ma quando ci accorgemmo della velocità con cui il virus si era diffuso, ci rendemmo conto di trovarci di fronte a qualcosa di più grande, che eravamo sotto attacco“.


L’attacco il giorno della Costituzione ucraina

Gli ucraini, quel giorno di giugno, avrebbero festeggiato la loro indipendenza – si trattava proprio della giornata dedicata alla Costituzione in Ucraina, “ma la Madre Russia non li avrebbe mai davvero lasciati liberi” scrive Perlroth. La rivoluzione ucraina del 2014, quando centinaia di migliaia di ucraini avevano invaso la piazza dell’Indipendenza per ribellarsi al governo ombra del Cremlino in Ucraina e deporre il presidente Viktor Yanukovich – definito burattino di Putin -, ha avuto un ruolo chiave.

Da allora l’esercito digitale di Putin aveva attaccato l’Ucraina, e fu così che “per cinque lunghi anni i russi hanno bombardato gli ucraini con migliaia di attacchi informatici al giorno e analizzato incessantemente le reti del paese in cerca di vulnerabilità, qualunque cosa potesse seminare zizzania e danneggiare la leadership filoccidentale dell’Ucraina”.


Conflitti “invisibili” nel mondo

Da quel 2017 ad oggi di cose ne sono cambiate: la storia ha proceduto a passi ben distesi e la guerra è diventata più fredda dei corpi senza vita sulle strade ucraine.

Questo libro tuttavia non si focalizza solo sui primi atti conflittuali tra Russia e Ucraina, ma su tutte le guerre nel mondo che oggi si lottano a colpi di numeri: quelle che minacciano ogni Stato pur nella loro invisibilità.

Articolo a cura di Sara Erriu