La trascrizione di uno dei più preziosi discorsi: “Ho scelto la vita” aggiunge un tassello alla storia dell’Olocausto. I proventi devoluti in beneficienza


Siamo nei sotterranei della stazione centrale di Milano. Qui non si smistano solo pacchi postali, ma anche vite. Tra le tante quella della 13enne Liliana Segre e di suo padre. Siamo nel 1944, ma sono stati necessari ben 69 anni per trasformare questo luogo di partenze verso i campi della morte in un’area museale che ha preso il nome di Memoriale della Shoah.

La testimonianza, o sarebbe meglio dire l’ultima testimonianza pubblica sulla Shoah di Liliana Segre, è preziosissima, un discorso tenuto il 9 ottobre del 2020 nel piccolo borgo di Rondine, in provincia di Arezzo, di fronte a tanti ragazzi delle scuole. Una decisione presa dopo “aver parlato per trent’anni”, un discorso che custodito e fruibile da tutti nel libro intitolato Ho scelto la vita.


Tutto iniziò a scuola

Fu proprio a scuola, in un giorno di settembre del 1938, che la vita di Liliana iniziò a cambiare drasticamente: “Tu non puoi più andare a scuola. Siamo ebrei, ci sono nuove leggi…” le dissero. Ma di lì a poco mai avrebbe potuto immaginare che in Italia sarebbe diventata invisibile, il suo banco vuoto.

Indifferenza: è questa la parola con cui Segre ha voluto accogliere i visitatori nel Memoriale della Shoah, la stessa parola che segnò il destino della sua e della vita di tanti altri ebrei deportati nei campi di concentramento.


Nel mio racconto ci sono la pena, l’amore, la pietà, il ricordo struggente di quella che ero io ragazzina e della quale oggi sono diventata la nonna. Una nonna incredula, a volte incapace di stare vicino profondamente, da tanti anni ormai senza lacrime, a quella ragazzina


A seguire la perdita della dignità

Il ricordo di quegli anni, nonostante il tempo passato, continua a essere vivo, è indelebile come quel numero (75190) ancora ben impresso sulla carne, che ha tolto ogni identità alla giovane Segre. Ma quello sarà solo il primo passo verso la perdita totale della propria dignità: la testa rasata, il viso smunto e il corpo scheletrico.


“Ci guardavamo, ci guardavamo… Io non conoscevo nessuna delle altre trenta, ma immediatamente abbiamo dovuto riconoscerci”


Ma ciò che più sconvolse una delle poche sopravvissute ai campi di sterminio e ancora oggi in vita fu la separazione dal padre, da quell’uomo che aveva perso la moglie poco dopo la nascita della figlia, che “quando tornava dagli interrogatori terribili a cui lo sottoponevano, non era più mio papà, era mio figlio, e io sua mamma. Cercavo di abbracciarlo, di dirgli che qualunque cosa fosse successa ero felice perchè eravamo insieme”.


La paura di perdere altro dopo aver perso tutto

I giorni che seguirono la loro separazione furono difficili, “il timore di diventare amica di qualcuno e poi perderlo mi portava a scegliere la solitudine. […]. Avevo paura di perdere ancora altro, dopo che avevo perso tutto”. E giorno dopo giorno, Liliana impara a non voltarsi “a guardare i mucchi di cadaveri fuori dal crematorio, pronti per essere bruciati. […] Non volevo vedere. Avevo trovato dentro di me qualcosa che mi estraniava. Bisognava astrarsi, togliersi col pensiero, se si voleva vivere. […]. Io ho scelto la vita“.

Ma Liliana non fece nulla di speciale per sopravvivere in quel campo (“sopravvissi quasi per caso”), cercava di non disobbedire, si occupava del lavoro operaio come le veniva imposto e i giorni trascorsero, fino alla perdita di potere della Germania e le spinte russe provenienti da est e americane da ovest.


In un mondo di odio, ha vinto la pace

Dopo tanto dolore, ma mai il perdono di quegli assassini, Segre non hai mai ceduto all’odio. Quando ebbe la possibilità di uccidere uno di quei soldati, “pensai: ‘Adesso raccolgo la pistola e gli sparo’. Perchè mi sembrava un giusto finale di quel periodo incredibile di cui ero stata testimone, io, viva ancora quel giorno. Fu un attimo importantissimo, decisivo nella mia vita. Capii che mai, per nessun motivo al mondo, avrei potuto uccidere qualcuno. Capii che io non ero come il mio assassino. Non ho raccolto quella pistola e da quel momento sono diventata quella donna libera e quella donna di pace che sono anche adesso”.

La memoria è un vaccino prezioso. […] E’ un atto di giustizia postumo ma soprattutto è un’orazione civile senza la quale si perde la direzione della Storia e si smarriscono anche le stesse ragioni per le quali siamo insieme, come famiglie, come comunità. […] Senza la memoria i torti si confondono con le ragioni; i carnefici si sovrappongono alle vittime, schiacciandole ancora una volta nell’oblio, come fossero semplici numeri. […]. Senza la memoria le vittime innocenti muoiono ancora. Muoiono nella nostra indifferenza