La campana di vetro, il romanzo di formazione della grande poetessa statunitense che ha tutti gli elementi dell’autobiografia. Una storia degli anni ’60 di depressione e rinascita
“Avrei dovuto essere l’invidia di migliaia di ragazze dei college d’America, le quali avrebbero dato chissà cosa per trovarsi nei miei panni […]. Peccato che io non ero padrona di niente, nemmeno di me stessa”. A parlare è Esther, diciannovenne statunitense che, grazie a un premio, ha l’occasione di compiere un mese di praticantato a New York, in una nota rivista di moda. Ma questa è solo una delle tante avventure che la protagonista affronterà in La campana di vetro; tra queste anche il ricovero in un istituto psichiatrico.
La campana di vetro non racconta però solo la storia giovanile di Esther Greenwood, rivela anche le vicende autobiografiche dell’autrice stessa, Sylvia Plath, meglio conosciuta sul panorama letterario internazionale come poetessa. Il romanzo è stato pubblicato nel 1963, purtroppo dopo circa un mese dall’uscita l’autrice si suiciderà.
Questo romanzo tuttavia, nonostante porti con sé malinconia e racconti le terribili condizioni in cui versavano le persone con problemi psicologici e psichiatrici negli anni ’60 – con l’utilizzo anche dell’elettroshock -, è ottimistico. Si può dire infatti che La campana di vetro sia un romanzo di formazione e di iniziazione: Esther dopo una serie di sofferenze e cure rinasce.
“La campana di vetro”, una storia autobiografica forte e colloquiale
Come accennato, sono tanti i rimandi alla vita personale dell’autrice, La campana di vetro si può infatti definire una sorta di autobiografia: molti elementi presenti nel libro sono comuni al vissuto da Sylvia Plath stessa e il modo in cui il tutto viene raccontato lo accentua: la scrittura è colloquiale, il racconto al presente e in prima persona, quasi come un diario.
Il romanzo di Sylvia Plath si può dire precursore dei tempi: Esther più volte si trova a riflettere sui propri desideri ambiziosi, lei vorrebbe fare la poetessa ma allo stesso tempo si accorge che i suoi sogni e le sue esigenze entrano in collisione con cosa “impone” la società dell’epoca; questo la farà sentire inadeguata.
“Sembrava talmente facile avere dei bambini, per quelle donne nella sala d’aspetto. Perchè io ero così poco materna, così diversa? Perchè non sognavo anche io di dedicare la vita a una sfilza di marmocchi frignanti?” si legge nel libro.
La sua è una visione libera e anticonformista che la segnerà nel profondo, una serie di riflessioni che oggi definiamo femministe. Le sue parole semplici non fanno altro che marcare l’esigenza di non voler cadere nella trappola del ruolo tradizionale di donna.
Provai a immaginare come sarebbe stata la mia vita con Constantin come marito. In piedi alle sette per preparargli uova e pancetta […], lavare i piatti sporchi, rifare il letto; e lui, al ritorno alla sera, dopo una giornata intensa e affascinante, avrebbe preteso una cena come si deve, e io avrei trascorso la serata a lavare altri piatti sporchi, finchè sarei crollata sul letto, sfinita. Sembrava una vita squallida e sprecata, per una ragazza che per quindici anni aveva sempre preso il massimo dei voti, ma sapevo che la vita matrimoniale era esattamente così
Un romanzo di formazione
La campana di vetro si potrebbe dire anche un romanzo di formazione che richiama un po’ Il giovane Holden di Salinger. Le riflessioni sviluppate da Esther spesso accompagnano anche i giovani d’oggi, contesi tra il bisogno di realizzarsi e la paura del futuro che può paralizzare.
Per tutta la vita mi ero detta e ripetuta che il mio più grande desiderio era studiare, leggere, scrivere, lavorare lavorare lavorare, e del resto sembrava proprio la verità: ero sempre stata brava in tutto, avevo sempre preso il massimo dei voti, e adesso, al college, nessuno mi fermava più. […] Adesso facevo pratica presso la professionista più in gamba di tutte le riviste femminili di moda, attualità e cultura. E invece che cosa facevo? Mi tiravo indietro impaurita come uno stupido cavallo da tiro
In questa cornice giovanile grande attenzione anche al turbamento psicologico, la depressione che porterà Esther a tentare il suicidio. Seguirà la reclusione in un istituto psichiatrico e il suo percorso verso la riabilitazione. Un cammino faticoso verso la rinascita che qui viene descritto accuratamente.
Si può dire, infine, che quest’opera sia una preziosa testimonianza di come veniva trattato in un passato non troppo lontano il disagio psicologico: l’autrice stessa l’ha vissuto sulla propria pelle. “Avrei preferito di gran lunga essere malata nel corpo che essere malata nella testa” sono le parole di Esther, alias Sylvia.
Recensione a cura di Sara Erriu