La vera storia di due gemelle deportate in un campo di concentramento


Le gemelle di Auschwitz è la storia vera di due sorelline di dieci anni, Eva e Miriam, che furono deportate nel campo di sterminio di Auschwitz, in Polonia. Mentre molti bambini e anziani, una volta scesi dal treno, venivano separati dai loro cari e inviati alle camere a gas, alle due bambine fu riservato un trattamento “speciale”: ai gemelli, infatti, era consentito tenere i propri vestiti ed era risparmiata l’umiliazione di vedersi rasare completamente i capelli.

Questi bambini erano sottoposti a crudeli esperimenti da parte del dottor Mengele, soprannominato “L’angelo della morte”, un medico che conduceva studi sulle coppie di gemelli allo scopo, tra gli altri, di ricreare “la razza ariana”. Successivamente, nonostante fossero passati diversi anni, le due sorelle non scoprirono mai esattamente quali agenti patogeni gli fossero stati inoculati. Miriam, a causa di quegli esperimenti, dovette sottoporsi ad un trapianto di rene; altri gemelli, invece, si ammalarono e persero la vita mentre erano internati nel campo.


La catena dell’odio

Una testimonianza, quella dell’autrice Eva Mozes (protagonista insieme alla sorella delle vicende narrate) da cui traspare il desiderio di far conoscere al mondo intero le atrocità commesse dai nazisti affinchè non solo nessuno dimentichi, ma perché ciò che è accaduto non si ripeta.

La catena dell’odio, però, per gli esseri umani è difficile da spezzare, e spesso è generata dall’ignoranza e dal pregiudizio, come ebbe modo di constatare la stessa Eva. Dopo il matrimonio e il trasferimento negli USA, infatti, per undici anni i ragazzini del vicinato la perseguitarono dipingendo svastiche e scritte sui muri della sua casa. In seguito, quando la NBC trasmise un documentario sull’Olocausto, diversi le scrissero o le telefonarono per scusarsi.


Mi resi conto che avevo la facoltà di perdonare persino lo spietato “Angelo della morte”. […] Sapere di poterlo fare mi fa stare bene. Ho questo potere ed esercitandolo non farei del male a nessuno.


Si potrebbe pensare che al loro ritorno a casa, dopo la liberazione da parte dei soldati russi, le due sorelle abbiano potuto recuperare un po’ di serenità. Purtroppo non fu così: in Romania la polizia segreta arrestava chiunque; per poter ricongiungersi alla famiglia paterna, Eva e Miriam decisero di andare in Israele, ma a pochi giorni dalla partenza il governo permise loro di portare via solo ciò che riuscivano ad indossare.


Il perdono come esigenza personale

Per molti anni Eva rimase in collera con la madre e il padre per aver sottovalutato le notizie sulle deportazioni e non essere scappati prima. Nel libro, però, lei racconta anche di come, negli anni successivi, sia riuscita a perdonare sia i suoi genitori che i nazisti, ed è stato probabilmente questo suo continuo rimando al perdono ad essere frainteso da molti sopravvissuti, che si sentirono offesi dalla sua clemenza.

Come lei stessa ha ribadito più volte, tuttavia, il perdono deve nascere da un’esigenza personale. Per molti non ci poteva essere perdono senza scuse ufficiali, ma Eva era andata oltre: aspettarsi delle scuse che non sarebbero mai arrivate avrebbe inutilmente acuito le sofferenze di tutti quelli che avevano vissuto quell’esperienza, condannandoli ad un’esistenza di rabbia e dolore. Il perdono, inoltre, non esime dalle conseguenze delle proprie azioni: chi aveva sbagliato doveva essere punito.

Un libro tradotto in quasi 16 paesi, che l’autrice voleva fosse letto dai giovani e dagli studenti, cosicché la memoria continuasse a vivere attraverso le generazioni successive. Il problema, però, come spesso accade, è che la sola conoscenza non basta se non è accompagnata da giusti valori e dalle azioni.

Recensione a cura di Rossella Belardi