Tra la peste nera e il coronavirus ci sono secoli di differenza, ma (forse) l’atteggiamento delle persone non è così diverso…


Sono passati più di trecento anni dalla terribile pestilenza che colpì il mondo intero nel Seicento, eppure oggi – seppur con variabili (nuovi mezzi scientifici, migliori condizioni igieniche e maggior consapevolezze) diverse – ci troviamo nuovamente a fare i conti con una minaccia, un virus, che mette a rischio la salute di una mole di persone direttamente proporzionale al grado di globalizzazione.

Quello del Coronavirus è un fenomeno specifico e attuale che richiama timori, incognite che spesso sfociano in vere e proprie psicosi che si diffondono tra le persone, “infettandole” molto più rapidamente di qualsiasi virus.

In proposito, vorrei aprire una parentesi, che – statene certi – ha molto del letterario! Infatti, nell’analizzare l’atteggiamento delle persone nei confronti dell’emergenza da Coronavirus, vorrei scomodare anche il buon Alessandro Manzoni.

Come molti di voi sapranno, alcuni dei più noti capitoli dei “Promessi Sposi” sono dedicati alla diffusione e agli effetti della terribile peste nera che, in poco tempo, sterminò una fetta importante dell’umanità.

E qui sorge spontanea una domanda: può una realtà socio-sanitaria circoscritta riflettere una mentalità, far manifestare un atteggiamento “medio” da parte della popolazione? Anche nei “Promessi Sposi” Alessandro Manzoni ha riflettuto su questo, ed è giunto a una risposta che (forse) vi sorprenderà.

Leggendo il 31° capitolo del romanzo storico più famoso in assoluto, si nota come l’autore abbia avviato una sì pietosa, ma talora anche sarcastica e sferzante riflessione sulla popolazione e il suo “approcciarsi” alla pestilenza. Tra queste pagine, infatti, traspare il resoconto di una società in “delirio”, che non riesce a “vedere” la realtà: vittima dell’ignoranza, cede a illusioni e a facili conclusioni, nascondendo la verità della pestilenza e del contagio dietro a possibili “untori” e a superstizioni di varia natura.

Da considerare che il grande letterato non si riferisce solo agli strati bassi della società, ma anche ai “potenti”, alle autorità, che si lasciano sedurre da ipotesi ottimistiche prive di alcun fondamento scientifico, tanto che i medici del Tribunale della Sanità dell’epoca finiscono per essere insultati e perseguitati, bollando le loro teorie sulla peste come stratagemmi per arricchirsi.

Il capitolo, infatti, si chiude con il trionfo della “cecità”, dell’irrazionalità e del “delirio”, che si riflette anche sull’uso stesso del linguaggio da parte della popolazione: come testimonia lo scrittore, all’inizio del propagarsi della pestilenza era addirittura proibito pronunciare la parola “peste”; solo in un secondo momento si potè parlare di “febbri pestilenziali”, per poi dare il via libera al vocabolo “peste”, accostandolo però al concetto di malefizio, a offuscare nuovamente l’idea stessa della parola.

Ma ora arriviamo alla conclusione (amara) a cui perviene chiaramente Manzoni, e che potremmo benissimo fare nostra all’alba del 2020. L’uomo, anziché adottare un metodo scientifico e un approccio razionale e obiettivo, preferisce utilizzare le parole per difendersi, rifugge così dalla realtà dei fatti: “Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare”.