Il romanzo di Italo Calvino regala grandi occasioni per riflettere sull’importanza di liberarsi dalle cose materiali


Il Barone Rampante di Italo Calvino rappresenta un classico della letteratura contemporanea del nostro paese. Letto a più riprese durante gli anni della scuola, ma forse solo da adulti si può realmente apprezzare e comprendere il messaggio, le sfumature, la narrazione, l’arguzia.

Cominciamo cercando di collocarlo correttamente all’interno della cornice in cui si inserisce: opera datata 1957 è, infatti, il secondo volume di una trilogia nota come I nostri antenati che comprende Il Visconte Dimezzato (1952) e Il Cavaliere Inesistente (1959).

In realtà fu solo a posteriori della pubblicazione dei tre testi che Calvino suggerì di considerarli come fratelli. Interessante a tal proposito è la nota che l’autore stesso appose alla traduzione inglese del 1980 che aiuta a contestualizzarne il valore allegorico, come parabola della vita dell’uomo contemporaneo:

Il racconto nasce dall’immagine, non da una tesi che io voglia dimostrare; l’immagine si sviluppa in una storia secondo una sua logica interna; la storia prende dei significati, o meglio: intorno all’immagine s’estende una serie di significati che restano sempre un po’ fluttuanti, senza imporsi in un’interpretazione unica e obbligatoria. Si tratta più che altro di temi morali che l’immagine centrale suggerisce e che trovano un’esemplificazione anche nelle storie secondarie: nel Visconte storie d’incompletezza, di parzialità, di mancata realizzazione d’una pienezza umana; nel Barone storie d’isolamento, di distanza, di difficoltà di rapporto col prossimo; nel Cavaliere storie di formalismi vuoti e di concretezza del vivere, di presa di coscienza d’essere al mondo e autocostruzione d’un destino, oppure d’indifferenziazione dal tutto


La genialità di Calvino si percepisce, per esempio, nell’incredibile stratagemma a cui ricorre per l’edizione del 1965 de Il Barone Rampante, che lo scrittore cura in prima persona; si tratta di una versione dell’opera destinata agli studenti delle scuole medie e per questo ricca di annotazioni, spiegazioni e commenti aggiunti dallo stesso autore, sotto le mentite spoglie di un professore “meticoloso” e “pedagogista”: tale Tonio Cavilla, il cui anagramma non rimanda a nulla di meno che al nome dell’autore.


La trama

Ma veniamo ora alla trama. La storia viene raccontata in prima persona da Biagio, fratello più piccolo del protagonista Cosimo Piovasco di Rondò, rampollo di una nobile famiglia ligure. La narrazione prende avvio dal momento della fuga del giovane baroncino da una tavola imbandita dopo aver espresso fermamente e con “ostinazione sovraumana” il suo rifiuto nel mangiare un piatto di lumache. Cosimo, cosciente dell’atto di sfida rivolto ai genitori scansando il piatto, sale rapido su di un elce nel giardino e promette di non scenderne mai più: “E mantenne la parola”.

È così, dunque, che vive tutta la sua vita, dai 12 anni ai 65, sugli alberi. Una vita memorabile, avventurosa, libera e non convenzionale, ma soprattutto incredibilmente piena.

Dalla sua privilegiata posizione sugli alberi, che lo colloca al di sopra delle cose materiali, Cosimo svilupperà il suo personalissimo occhio sulla vita e sugli eventi. Nasce spontanea la riflessione che alla posizione fisica ne corrisponda una sorta di posizione metafisica che lo rende super partes: è chiaro il simbolismo al guardare le cose con distacco, dall’alto.

Eppure, allo stesso tempo Cosimo si lascia poi coinvolgere da quelle che sono cause importanti per lui: sarà alla guida dell’attacco contro i soldati turchi; aiuterà i nobili spagnoli di Olivabassa, e sarà persino a capo di una squadra di pompieri da lui stesso organizzata per sventare gli incendi nei boschi.

Cosimo, come chi cammina con i piedi sulla terra e non tra i rami degli alberi, conoscerà l’amore con Viola, l’amicizia, il dolore, la morte, studierà filosofia e intratterrà una relazione epistolare con Voltaire.

Recensione a cura di Francesca Crepaldi