Istantanee di vita quotidiana ricche di nostalgia e piccoli attimi di felicità. Accettarsi è anche questione di attese


Contare le sedie. E’ quello che si fa quando si è chiusi in una sala d’attesa, aspettando il proprio turno, il responso di qualcosa che potrebbe sconvolgere. Questa volta a contare le sedie, in quel lasso di tempo sospeso, è Ester Armanino con il suo nuovo libro intitolato appunto “Contare le sedie”, edito Einaudi.

Una raccolta di frammenti di vita quotidiana, di istantanee cariche di nostalgia, di piccoli attimi di felicità, ma anche di grandi dolori: una presa di coscienza scaturita dal raccoglimento di tutte le tessere di un puzzle per cercare di dare un senso al filo delle Parche.

In fin dei conti per costruire qualcosa bisogna assemblare anche elementi che non riusciamo a maneggiare, servendoci di tutti quegli strumenti che abbiamo accumulato col tempo nella cassetta degli attrezzi; sederci in quella sedia che ora ci sembra tanto piccola ma che un tempo ci appariva immensa: “per ritornare dobbiamo chiamare a raccolta tutte noi stesse. Tutte le parti che avevamo abbandonato sia le preferite che quelle discutibili”.

L’autrice, in questo libro difficile da orientare in un preciso genere, è brava a porre in quella sedia anche il lettore che passa in rassegna ciò che in definitiva ha tanto in comune con il suo vissuto, aspettando una scintilla che faccia scattare in avanti, una chiave per arrivare a una soluzione, anche per sé.

E’ proprio in una carrellata di esperienze quotidiane anche eccentriche che l’autrice ci conduce a rintracciare una soluzione: l’accettazione di sé, anche se a pezzi. Lo dice anche la scienza, “una specie vivente non è mai definitivamente compiuta. Se l’ambiente in cui vive subisce un cambiamento, lei cambierà a sua volta. E il cambiamento può essere veloce oppure lento”.

E’ proprio in quella capacità di adattamento tipico della natura che la protagonista – che ha tanto in comune anche con Ester Armanino – riesce a cogliere qualche traccia di felicità: una “gallina è un perfetto equilibrio di leggerezza e gravità, pieni e vuoti, proprio quello che tutti desideriamo”.

La “casa della felicità” non è che fatta di “piccoli spazi pieni di significato, come la credenza dove stanno le tazzine, il sottoscala con le valigie, la cuccia del cane, quello spazio accessorio dove non transitiamo a lungo, però ricordiamo per sempre”.

Forse il tutto risiede proprio nello stupore, nell’immaginazione, nel dolore che ognuno ha dentro di sé, pronti a risvegliarci come un cubetto di ghiaccio sulla pelle, uno sguardo profondo incrociato per strada, il profumo di glicine all’angolo della discarica.

Fare pace con se stessi non è altro che scendere a patti con “la persona con cui avrai la più lunga relazione della tua vita”: anche se non sei “carina” come vuole la società, ti sei ritrovata, con tutti i tuoi pregi e i tuoi difetti, con le cicatrici che porti in volto o nel cuore, le lacrime che diventano tutt’uno con la terra. Una donna pronta a costruirsi e a disfarsi ogni volta, pronta nell’attesa a cambiare anche sedia.