Abbiamo intervistato l’autrice di “People watching in Rete”. Ecco cosa abbiamo scoperto sull’etnografia digitale
Dopo aver parlato qui del libro “People watching in Rete“, abbiamo fatto due chiacchiere con l’autrice di questo saggio che, nella sua brevità, è in grado di suscitare riflessioni, nuovi punti di vista e modi per guardarci intorno: perchè non si smette mai di studiare per comprendere il mondo in evoluzione!
Alice Avallone lavora da quindici anni come digital strategist, ma è sempre stata innamorata del linguaggio pubblicitario e dell’antropologia digitale: due mondi solo in apparenza distanti, ma che da qualche tempo cerca di avvicinare per aiutare le aziende e gli enti a comunicare meglio. Per non bastare, Alice Avallone insegna alla Scuola Holden digital storytelling, portando dietro come bagaglio anche tutto quello che è l’approccio più umanistico dell’etnografia digitale.
Alla luce della professionalità dell’autrice, abbiamo così deciso di realizzare una breve intervista per comprendere il ruolo che l’etnografia digitale ha nella vita di ogni singola persona e la sia importanza in diversi campi professionali e non.
Lo so, prima di tutto vorrete capire: cosa è l’etnografia digitale? La parola passa ad Alice Avallone!
“Penso sempre all’online come una grande cartina geografica, con terre emerse più o meno estese, abitate da popolazioni con specifici linguaggi, comportamenti, motivazioni. Siamo noi esseri umani che abitiamo questi luoghi digitali, condividendo contenuti, mettendo in condivisione conoscenze e facendo tesoro delle esperienze reciproche. L’etnografia digitale è un metodo di ricerca qualitativa di piccoli dati umani, gli small data, proprio nelle conversazioni che avvengono online. L’osservazione offre significative chiavi di lettura per capire il mondo interconnesso che abitiamo, le relazioni che instauriamo e i linguaggi che usiamo”.
Quando è nato l’interesse per questa disciplina e perché hai deciso di scriverne un libro?
“Mi sono avvicinata alla netnografia sei anni fa grazie a un lavoro svolto per un cliente del settore turistico. È qui che ho avuto la fortuna di lavorare con due esperti della materia, che mi hanno trasmesso l’importanza di capire i “perché” dietro ai comportanti e alle scelte delle persone. Il libro nasce dalla mia esperienza sul campo e con l’obiettivo di introdurre anche in Italia questo metodo. Uno sguardo che all’estero, soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito, è già ben diffuso”.
Come abbiamo anticipato poc’anzi, sei anche docente in un corso proprio sull’etnografia digitale. Di cosa si tratta, ma soprattutto, hai notato un interesse (crescente) per questa disciplina “nuova” o resta comunque una branca di nicchia?
“C’è sempre più attenzione sulla necessità di capire i dati che ci circondano, soprattutto quelli più profondi e legati alle nostre emozioni e alle tensioni culturali che ci influenzano. E senza uno sguardo umanista che restituisca senso e contesto ai dati, è difficile riuscire nella magia di trasformare i numeri in parole significative per le nostre comunicazioni. Nei corsi alla Scuola Holden dedicati all’etnografia digitale e agli small data condivido il metodo del pioniere della materia, Robert V. Kozinets, docente all’Università del Southern California ed esperto studioso di marketing tribale e consumer culture theory, considerato come una delle voci più importanti nel campo dei social media, del marketing e dell’innovazione.
È lui nel 1995 ad aver teorizzato la disciplina in cinque passaggi necessari: la definizione dell’oggetto da investigare, l’identificazione del territorio e della community di cui osservare l’interazione, l’immersione per l’osservazione, l’integrazione con altri metodi di ricerca e l’interpretazione dei dati”.
L’etnografia digitale abbraccia diverse discipline, l’antropologia, la psicologia, l’informatica, la geografia e anche il marketing. Come è possibile che discipline anche apparentemente diverse, come il marketing e la geografia, qui siano in connessione?
“Non vale più la pena di lavorare per compartimenti stagni quando cerchiamo tracce in Rete. Se ci pensiamo bene, tutte le materie raccontano di noi esseri umani e tutte sono interconnesse. Più in generale, l’antropologia è come se le contenesse tutte, dunque non stupisce che si possa lavorare su diversi piani per capire la stratificazione culturale umana e, in questo caso, anche in Rete.
A tal proposito, l’antropologia digitale è una disciplina eccezionale perché studia l’uomo da un’angolazione inedita: indaga il nostro rapporto con la tecnologia, intesa sia come strumenti che abbiamo attorno (smartphone, computer, assistenti vocali) sia come piattaforme di conversazione online (social media, app mobile, forum, community). In fondo, dietro allo schermo non ci sono ‘utenti’, ma persone in carne e ossa”.
Cosa ti ha insegnato il “mestiere” dell’osservatore e, in particolare, dell’etnografo digitale?
“Una risposta secca: a non giudicare le altre persone. A limitarmi alla sola osservazione, tenendo da parte i miei giudizi. Ed è così che ho imparato a farlo non solo sul lavoro, ma anche nella mia vita quotidiana”.
Analizzare il comportamento delle persone online significa anche comprendere il fenomeno degli influencer. Secondo la tua osservazione perché queste persone sono diventate influenti? E che cosa spinge le persone, ad esempio, su Instagram a seguire quotidianamente un influencer?
“Da quando nasciamo abbiamo bisogno di riferimenti: prima sono i genitori o le persone che ci crescono, poi i maestri di scuola, e poi ancora i personaggi famosi che ci piacciono. Un influencer, proprio grazie al digitale, è una persona percepita più vicina, proprio perché possiamo conoscerne la vita (seppur filtrata e patinata).
Tra l’altro il Coronavirus ha potenziato questa percezione. Ripensando al periodo del lockdown, la sensazione è quella di essere stati invitati collettivamente nelle case dei personaggi famosi: abbiamo ascoltato i loro consigli di cucina, insieme abbiamo fatto allenamento sul tappetino, abbiamo ascoltato musica e abbiamo letto con loro un libro sul divano. Insomma, il distanziamento sociale e l’isolamento hanno demistificato l’hype di VIP e influencer. Sarà interessante vedere come cambierà questo rapporto nei prossimi mesi di ripresa”.
Attraverso questa forma di indagine possiamo anche capire come comunicano i politici alle persone. Quanto oggi i politici si servono dei social per “arrivare” alle persone e ottenere una sorta di consenso? E perché le persone hanno bisogno di seguire giornalmente le vicende (anche della vita privata) di un politico?
“Perché vogliamo sentirci partecipi: dell’attualità, delle decisioni, delle vite degli altri. Il seguire il discorso politico, in particolare, soddisfa l’innato bisogno, tutto umano, di appartenere a qualcosa di più grande e di esserne parte attiva. Il giusto equilibrio a mio avviso potrebbe essere la nascita sugli spazi social di conversazioni e scambi più approfonditi, che spezzino le catene delle cosiddette echo chamber e ci coinvolgano promuovendo una consapevolezza reale, necessaria perché il mondo possa davvero cambiare anche, ma non solo, con un click”.
Infine, ultimamente, i social si sono popolati di dirette, oltre che di foto e testo. La quarantena ha un po’ fatto la sua parte in tutto questo. Secondo te perché oggi si utilizza di più questo mezzo comunicativo? È in grado di avvicinare di più le persone?
“Comunicare, che sia in analogico o in digitale, significa ‘mettere in comune’: c’è un mittente che invia un messaggio per un destinatario. Il digitale, a differenza di altri media, aggiunge un pezzettino, dando la possibilità a chi riceve un contenuto di poterci interagire ed eventualmente lasciare un feedback.
La reazione del destinatario – una ricondivisione, un mi piace, un commento – viene decodificata poi dal mittente, dando così la sensazione di una comunicazione compiuta, circolare, continua. Se vogliamo azzardare una metafora, il digitale instaura una relazione molto più simile al dialogo, che al monologo, tipico invece dei media cartacei”.